Ministero della Cultura

Direzione Regionale Musei
Emilia-Romagna

 

L'apparato didattico

Storia di Sarsina antica
I rinvenimenti in città
Il Museo Archeologico
Gli scavi di Pian di Bezzo
Topografia della necropoli
Tipologia dei sepolcri
I riti funerari Romani
Le divinità orientali
La cinta muraria

 

STORIA DI SARSINA ANTICA

Le fonti antiche (Polibio, Livio, Plinio, Marziale) ed i rinvenimenti archeologici, primi fra questi i testi epigrafici dei monumenti pubblici e sepolcrali, hanno consentito di tracciare le linee essenziali della storia del municipio romano di Sarsina (Sassina).

Nel IV sec. a.C. popolazioni umbre (Umbri Sapinates), già presenti nella vallata del Savio fin dal VI secolo, diedero vita al primo insediamento stabile sull'area dell' odierna città. Occuparono così il terrazzo fluviale che dominava la vallata del fiume Savio, importante asse naturale di collegamento tra la Pianura Padana e la costa adriatica a nord, il Casentino e la Val Tiberina a sud e la valle del Marecchia ad est.

Alla seconda metà del IV sec. a.C. si datano le tracce del nucleo urbano, adiacente all'attuale Piazza Plauto (area dell'ex Seminario), fatto di modesti edifici in legno con annessi piccoli impianti artigianali.

Nel 266 a.C., dopo due impegnative campagne militari, Sarsina fu sottomessa dai Romani, che comunque garantirono alla città una certa autonomia, conferendole lo statuto di civitas foederata (città alleata).

A seguito di ciò nel 225 a.C., durante la guerra tra Galli e Romani, i Sassinates, unitamente agli Umbri fornirono ai Romani 20.000 soldati.

E' in questo periodo (254 a.C.) che si colloca la nascita del grande  commediografo e poeta Tito Maccio Plauto.

Nei decenni centrali del I sec.a.C, la città, ormai  integrata nello stato romano come municipium, fu riorganizzata sul piano urbanistico ed architettonico, venendo anche dotata di una solida cinta di mura.

Determinante per il suo assetto sociale ed economico fu la presenza di liberti (schiavi affrancati), spesso di origine orientale, che divenuti ceto imprenditoriale contribuirono alla rivitalizzazione della città.

All'età augustea risale l'inserimento del municipio nella circoscrizione amministrativa della Regio VI (Umbria) anziché nella Regio VIII (Emilia), a conferma della sua origine umbra.

In età imperiale, fino al III sec.d.C., Sarsina ebbe un notevole sviluppo, basato su una solida economia silvo-pastorale e sui rapporti commerciali instaurati col porto di Ravenna. Testimonianza del volume di affari raggiunto dalle varie  attività sono i riferimenti nei testi sepolcrali della presenza delle corporazioni dei fabri (artigiani) centonari (fabbricanti di stoffe) e dendrophori (carpentieri), nonché dei muliones (mulattieri).

Nel tardo III sec. d.C, Sarsina subì violente devastazioni, forse da parte di popolazioni barbariche, come testimoniano segni evidenti di incendio riscontrati sui pavimenti musivi di alcune abitazioni. Fece quindi seguito un periodo di decadenza e di stasi insediativa.

Fra il III e il IV sec. ebbe il suo primo vescovo, Vicinio, poi divenuto santo patrono della città. Ulteriori incursioni forse dei Visigoti e degli Eruli si datano  al periodo compreso fra il 409 e il 470  mentre nel 757 fu soggetta all'Esarcato. Nel X secolo venne eretta la Cattedrale romanica che funse da nucleo attorno al quale continuò a gravitare la città.

 


 

I RINVENIMENTI IN CITTA’

 Sarsina antica sorse e si sviluppò nella medesima area occupata dalla città attuale. Come per tutti i centri urbani pluristratificati, le occasioni di indagini archeologiche dipendono quasi sempre dalle opportunità offerte dai lavori per opere di urbanizzazione o interventi edilizi. Perciò gli scavi risentono dei limiti imposti dalle strutture più recenti che si sovrappongono e che impediscono di indagare per esteso i resti sottostanti.

Ciononostante i diversi rinvenimenti archeologici effettuati nel tempo in svariati punti della città, visualizzati nella pianta accanto, hanno consentito di ricostruire, nelle sue linee generali, l'assetto urbanistico di Sarsina a partire dalla sua nascita. 

Indagini archeologiche condotte negli anni '80 nell'area dell'ex Seminario hanno messo in luce alcuni resti strutturali del primo insediamento stabile di fase umbra (IV sec. a.C.), costituito da capanne lignee, con annessi piccoli impianti produttivi e artigianali; le stratificazioni rilevate in altri punti della città hanno confermato il suo sviluppo nella medesima area occupata da quella romana.

Nel corso del I sec. a.C., in seguito all'acquisizione dello statuto di municipium fu attuato un incisivo rinnovamento urbanistico,  sulla scorta di una specifica pianificazione e di una regolare distribuzione degli spazi. 

Base del piano urbanistico fu il tracciamento del reticolo viario, formato da assi quasi tutti  rettilinei che si incrociavano ortogonalmente, attestato dai resti di selciati e  marciapiedi o suggerito dal tracciato di grandi condutture fognarie in lastre di arenaria (una di queste ancora visibile al centro della sala). I vari isolati, di forma rettangolare, risultavano però di differente ampiezza, adattandosi alle variazioni altimetriche del terreno che verso nord implicarono un'organizzazione a terrazzi, di voluto effetto scenografico.

Nel secondo venticinquennio dello stesso secolo la città fu cinta  di mura in blocchi di arenaria, erette a scopo difensivo e come delimitazione del territorio.

Centro sociale e politico della città era il foro, solo in parte ricalcato dall'attuale piazza Plauto. Situato all'incrocio dei due assi stradali  dell'antica via Sarsinate, che entrava in città, la piazza  si estendeva da nord a sud per circa 120 metri, con uno sviluppo allungato. Almeno due sono i livelli pavimentali venuti alla luce: un primo, in lastre di arenaria, di età repubblicana; il secondo livello, in lastre di marmo di Verona accuratamente squadrate e disposte con grande regolarità, si data intorno alla metà del I secolo d. C.. Attorno al foro gravitarono i più importanti complessi pubblici, civili e religiosi della città, mentre le abitazioni si distribuirono  nei vari isolati.

Fra gli edifici pubblici  i resti più evidenti sono quelli emersi ancora una volta nell’area dell'ex Seminario, che si sovrapposero tra la fine del II secolo a.C. e la prima età imperiale ai resti di fase umbra; sono riferibili ad un edificio di natura commerciale, forse  un  mercato.

La basilica o la curia (luoghi di amministrazione della giustizia) forse sorgevano nell'angolo nord-orientale, ma le tracce rinvenute sono solo indiziarie. Vanno aggiunti, anche se non prospicienti il foro, i due complessi termali: uno nell'area del vecchio Foro Boario, sorto sui resti di una domus repubblicana che, che in seguito,  venne radicalmente ristrutturata e ampliata; l'altro nelle adiacenze della via Linea Gotica.

Un rinnovamento della veste pubblica della città, da collocarsi tra la fine del I sec. e gli inizi del II d.C., risulta confermato da svariate epigrafi con dediche a Nerva e Traiano,  connesse a monumenti onorari eretti a favore della famiglia imperiale in un momento in cui l'ambiente locale doveva godere di una particolare vivacità civile ed economica (sala VI).

Fra gli edifici di culto, uno è da riconoscere nei resti di membrature architettoniche, colonne e altri materiali, databili per la maggior parte al I sec. a.C., rinvenuti nell'area dell'ex campo Sportivo. Dalla stessa area provengono ex voto in bronzo di III sec. a.C., pertinenti ad una stipe votiva ed indicativi dell'esistenza di un precedente luogo di culto di tradizione umbra.

Ad un secondo edificio di culto sono poi da riferire i resti riportati in luce presso vicolo Aurigemma, non lontano dal margine nord orientale del foro. Essi comprovano l'esistenza di un  complesso monumentale, un donario, affacciato direttamente sulla piazza, votato a varie divinità del pantheon olimpico ed italico verso gli inizi del II secolo d.C. da Cesio Sabino, facoltoso cittadino sarsinate.

Un ultimo complesso monumentale di rilievo si ergeva nel quadrante sud-occidentale della città; probabile risulta l'attribuzione delle strutture emerse ad un santuario dedicato ai culti orientali in base all'iconografia delle statue ritrovate nel sito.

Nell'ambito dell'edilizia abitativa Sarsina ha offerto numerose testimonianze - databili tra il I secolo a.C. e il II d.C.- costituite per la maggior parte da frammenti architettonici o da isolate sezioni pavimentali.

Spiccano invece i due complessi indagati a sud di via Roma - attuale via Finamore -  e nell'ex Foro Boario, situato a lato del Museo. Dai resti strutturali messi in luce, la conformazione di tali abitazioni risulta consona alla tradizionale tipologia della domus italica, incentrata sulla presenza di un atrio con  pozzo.

Tra la fine del II e gli inizi del III sec. d. C. nelle domus di via Roma  gli ambienti di maggiore rappresentatività, probabilmente  triclini (sale da pranzo), furono pavimentati con pregevoli mosaici a figurazioni policrome di soggetto dionisiaco (sale V ed E); le abitazioni furono distrutte da un incendio che nel tardo III secolo d. C. devastò un intero quartiere di Sarsina, che non fu più riedificato, indizio- tra altri- della crisi insediativa della città.

In altri settori periferici sorsero abitazioni di impianto generalmente più modesto, talora accompagnate o affiancate da strutture artigianali, documentate da vasche, forni e fornaci; tali attività a probabile conduzione familiare, unitamente ad altri esercizi di tipo commerciale, dovevano integrare efficacemente l'economia locale, tradizionalmente legata ad una fiorente produttività di tipo silvo- pastorale.

 


IL MUSEO ARCHEOLOGICO

Il Museo Archeologico Nazionale Sarsinate, nella sua veste attuale, è frutto dei lavori strutturali e del conseguente riordino attuato nell'ultimo quindicennio, dopo diversificate fasi di ampliamento succedutesi nel corso di un secolo dalla sua fondazione.

Il primo nucleo espositivo del Museo, denominato “M.A. Plauto", fu infatti istituito nel 1890, per esplicita volontà dell'Amministrazione Comunale, dall'archeologo forlivese Antonio Santarelli. All'interno delle attuali prime due sale fu così allestita una ricca collezione di iscrizioni di età romana, di carattere pubblico e funerario, provenienti da rinvenimenti occasionali avvenuti nel corso dei secoli sia nella città che nel suburbio. Questi reperti erano stati raccolti, a partire dal Seicento, dagli studiosi e cultori di storia locale, primo fra questi l'erudito canonico sarsinate Filippo Antonini, al quale si deve la prima organica descrizione di 35 documenti epigrafici allora conservati nella Cattedrale o presso privati.

In seguito confluirono regolarmente nel Museo tutti i resti archeologici  emersi  dalle varie esplorazioni condotte in città, dalle quali si cominciò a delineare la prima fisionomia dell'abitato.

L'incremento maggiore alla raccolta fu però dato dai materiali rinvenuti nella necropoli romana di Pian di Bezzo,  indagata regolarmente a partire dal 1927 fino al 1939.

Considerata l'eccezionalità e lo stato di conservazione dei suoi imponenti monumenti funerari, per collocarli in Museo fu necessario aumentare gli spazi espositivi, che furono ricavati, seppure in modo inadeguato rispetto alle esigenze, all'interno del medesimo edificio, occupando progressivamente dal 1927 al 1950 tutti gli ambienti del pianterreno. Preziosissimo in quegli anni fu l'operato di Traiano Finamore, Conservatore Onorario del Museo fino agli anni '70, che seguì e diresse tutte le fasi di ricostruzione e musealizzazione dei vari monumenti funerari.

Acquisito dallo Stato nel 1957 e assunto il nome di "Museo Archeologico Sarsinate", l'edificio fu ampliato con la costruzione di una nuova sala al pianterreno (attuale V) e con l'occupazione progressiva del primo piano. Dal 1966 al 1976 il museo fu quindi riallestito a cura di Gino Vinicio Gentili, Antonio Veggiani e Giancarlo Susini, al quale in particolare va il merito di aver costantemente studiato e interpretato tutto il patrimonio epigrafico sarsinate, fonte primaria per la ricostruzione della storia politica e sociale della città.

Infine, negli anni '80, grazie  ancora alla collaborazione del Comune di Sarsina, la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Emilia Romagna ha proceduto ad un ulteriore ampliamento degli spazi espositivi (sala del mausoleo di Rufo); tale ristrutturazione, eseguita sotto la direzione scientifica di Jacopo Ortalli, ha consentito di ricomporre integralmente i principali monumenti funerari romani, in precedenza smembrati, pervenendo all'attuale allestimento delle collezioni.

 


GLI SCAVI DI PIAN DI BEZZO

Nella storia dell'archeologia sarsinate il primo posto spetta sicuramente agli scavi che hanno portato in luce la più importante necropoli romana, una delle più significative - per la tipologia dei monumenti sepolcrali- dell'Italia Settentrionale.

Fra il 1927 ed il 1933 sistematiche campagne di scavo condotte dalla Soprintendenza Archeologica dell'Emilia Romagna, dirette da Salvatore Aurigemma, consentirono di rinvenire un settore della necropoli romana  che si era sviluppata a partire dal I sec. a.C. in località Pian di Bezzo. La zona si trova a meno di due chilometri in linea d'aria dal centro cittadino, lungo un tratto dell'antica via di fondovalle diretta alla pianura, sulla riva destra del fiume Savio.

Agli inizi del III sec. d.C. una frana, forse causata da un terremoto, ostruì il corso del fiume e provocò l'allagamento di tutta l'area, ben presto sommersa da svariati metri di depositi alluvionali che protessero per secoli le tombe che vi si trovavano. La successiva erosione fluviale portò allo scoperto, nel corso dei secoli, lapidi e parti architettoniche di monumenti funerari confluiti in seguito nella prima raccolta museale, principali  indizi  per circoscrivere la zona da indagare.

La decisione di effettuare indagini sistematiche fu determinata  dai lavori per la creazione di una diga artificiale progettata dalla Società Idroelettrica dell'Alto Savio, a seguito dei quali si sarebbe preclusa qualsiasi ulteriore ricerca.

Fu dato così inizio alle esplorazioni, che riguardarono un'area di circa tremila metri quadri.

La prima campagna di scavo mise subito in luce i resti del Mausoleo di Rufo, rivelando inoltre l'inedita presenza della strada, lungo i cui lati si disponevano le sepolture.

Alla scoperta fecero seguito un serie di altre campagne di scavo, cui si affiancarono i primi interventi di restauro dei grandi monumenti e l'ampliamento degli spazi espositivi del Museo, nonché la ricostruzione nel giardino pubblico di Sarsina del mausoleo di A. Murcio Obulacco.

Dopo due ulteriori sondaggi nel 1939 e nel 1951, che confermarono l'assenza di altre sepolture monumentali, nel 1981-84 la Soprintendenza ha ripreso, sotto la direzione di Jacopo Ortalli, l'esplorazione di un settore situato circa 30 metri ad oriente dell'area monumentale, poco oltre il limite dei vecchi scavi. E' stato scoperto un nuovo tratto della strada in ciottoli fluviali, fiancheggiata a meridione da un fosso di scolo che la separava dal campo in cui sono state individuate una ventina di sepolture - quasi tutte cremazioni entro fossa - e recuperate tre stele.

L'aggiornata metodologia di indagine stratigrafica ha permesso inoltre di rilevare una serie di dati relativi al rituale funerario, completando in tal modo la conoscenza di aspetti fondamentali per la comprensione dell'intero contesto sepolcrale.

La ricomposizione degli eccezionali monumenti funerari della necropoli di Pian di Bezzo, visibili oggi nella loro interezza, è frutto di laboriosa opera di restauro ed integrazione, iniziata già durante le campagne di scavo, proseguita al momento della loro prima collocazione in Museo (anche se scomposti in più parti per l'inadeguatezza degli spazi disponibili) e conclusasi con l'attuale fase espositiva.

Preliminari e fondamentali per una corretta ricostruzione delle parti conservate e per l'integrazione delle parti mancanti furono gli accurati studi dei monumenti ancora in sito e le successive restituzioni grafiche curate da Traiano Finamore, disegnatore della Soprintendenza durante gli scavi, poi Conservatore Onorario del Museo Sarsinate fino al 1970.

Tuttavia fino agli anni '90 i monumenti musealizzati non poterono rivelarsi nella loro completezza, eccettuato il mausoleo di Obulacco ricomposto fin dagli anni '30 nel giardino pubblico del paese e divenuto in seguito monumento commemorativo dei Caduti di guerra. Pertanto i disegni del Finamore furono i primi e per lungo tempo gli unici riferimenti interpretativi per cogliere la tipologia di espressioni e del costume funerario fra le più singolari e significative della Regione.

Con gli ultimi lavori di ampliamento, resi possibili  grazie alla cessione del terreno da parte del Comune, si è potuta attuare l'opera di ricostruzione del mausoleo di Rufo e del monumento a dado di Verginio Peto, pervenendo all'attuale esposizione.

Durante le complesse fasi di rimontaggio altrettanto fondamentali  sono stati i disegni di Stanislav Kasprzysiak ed i restauri di Uber Ferrari.

 


TOPOGRAFIA DELLA NECROPOLI

Dall'età repubblicana il divieto di seppellire i defunti all'interno degli abitati determinò, in fase di pianificazione urbanistica, la posizione esterna delle aree cimiteriali rispetto all'area urbana.

Luoghi preferenziali divennero i tracciati delle principali strade di accesso alla città, lungo i cui lati si distribuivano le sepolture, in particolare quelle monumentali. La posizione delle tombe rispetto alla strada, unitamente al pregio architettonico ed epigrafico, esprimeva infatti la volontà di autocelebrazione manifestata dai singoli individui nel far erigere i propri monumenti; dietro a questi si trovavano le sepolture più modeste, quasi sempre prive di strutture di riconoscimento fuori terra. All'interno di una necropoli queste ultime erano sicuramente le più numerose poichè l'intento celebrativo assegnato alla tomba fu caratteristico di un periodo abbastanza limitato e riguardò solamente persone di un certo livello sociale.

Generalmente le tombe più antiche erano quelle che occupavano il tratto stradale più vicino alla città; nel contempo nuclei di tombe ravvicinate, anche se di epoca diversa, potevano esprimere l'appartenenza ad uno stesso nucleo familiare od a raggruppamenti sociali.

A Sarsina queste scelte distributive sono ben rispecchiate, considerata l'ubicazione dei sepolcreti romani venuti in luce. Tuttavia le due aree, rispettivamente a nord e a sud dell'asse stradale extraurbano, si differenziavano tra loro: la prima, benché indagata parzialmente, ha restituito semplici sepolture a fossa, mentre la necropoli meridionale di Pian di Bezzo si è rivelata in tutta la sua scenografica disposizione.

Con ogni probabilità quest'area era stata privilegiata in quanto relativamente pianeggiante e circondata da una gradevole cornice naturale, con macchie di vegetazione che lambivano le tombe.

Gli scavi sistematici hanno evidenziato la distribuzione lungo i lati della strada inghiaiata di prestigiose ed imponenti architetture sepolcrali, inframmezzate da stele e are funerarie. Le tombe più monumentali, databili tra la fine del I sec. a.C. e la I metà del I d.C. - periodo di maggiore affermazione dei ceti dirigenti locali - si concentravano in un tratto di poche decine di metri, a ridosso della strada. Nella fascia retrostante prevalevano invece sepolture più modeste, senza rilievo monumentale. Nel corso del I e del II sec. d.C l'area continuò ad essere frequentata  e fu occupato progressivamente il tratto stradale più a valle; nel contempo si ridimensionarono le tipologie sepolcrali, in parallelo col livellamento sociale ed il mutamento ideologico nei confronti della sepoltura, non più sentita come strumento di autocelebrazione.

Nella necropoli di Pian di Bezzo sono documentati, infine, anche raggruppamenti di deposizioni per nuclei familiari, come testimoniato dalle aree sepolcrali contigue al monumento di Verginius Paetus oltre  al nucleo tombale dei Murcii.

Altro raggruppamento significativo della fine del II secolo d.C. è quello dei defunti appartenenti al collegium dei muliones, riconosciuto attraverso una stele rinvenuta nell'ultimo settore indagato, eretta a fianco della strada, che ricorda appunto il lotto sepolcrale (locus) destinato ai mulattieri sarsinati.

 


TIPOLOGIA DEI SEPOLCRI

La monumentalizzazione del locus saepolturae fu considerata per diverso tempo un efficace mezzo di comunicazione sociale.

La forma, le dimensioni, l'apparato figurativo dei monumenti sepolcrali onoravano la memoria del defunto, esaltandone il rango avuto in vita.

La necropoli di Pian di Bezzo si contraddistingueva per l'estrema diversificazione delle sepolture. Ben 25 su un totale di 92 tombe scavate presentavano forme di monumentalizzazione di diverso tipo:

- un sepolcro laterizio a camera ipogea con copertura a volta;

- un  monumento a tamburo cilindrico con basamento quadrato in ciottoli e corpo rotondo rivestito in mattoni;

- due monumenti a dado in lastre di arenaria di forma cubica, decorati da un fregio dorico, uno molto frammentario non recuperato e il monumento di Verginio Peto ricostruito nella sala IV.

- cinque mausolei ad edicola con cuspide piramidale costituiti da tre distinti corpi architettonici: un dado di base corniciato; una struttura mediana a cella templare con finta porta; una copertura piramidale sormontata da un finto cinerario retto da un grande capitello. Dei cinque presenti nella necropoli, percentuale elevatissima rispetto agli altri tipi, due sono documentati solamente da alcuni  elementi architettonici (sala IV); illuminante è invece l'imponente mausoleo di Rufo, alto m.14.13, ricostruito nell'ala nuova della sala V.

Un altro pregevole esemplare è quello di Obulacco, anch'esso ricostruito tra il 1936 e il 1938 nel giardino pubblico all'ingresso del paese, mentre del mausoleo di Oculatio, figlio di Obulacco - rimasto incompiuto - resta il basamento nella sala V.

Il tipo, di derivazione ellenistica e largamente attestato in diversi ambiti del mondo romano, evidenziava il massimo intento celebrativo e di eroizzazione del defunto.

Oltre ai grandi monumenti sono stati recuperati diversi altri tipi di segnacoli tombali quali are, cippi e stele, secondo modelli ampiamente diffusi nella prima età imperiale.

Particolare attenzione meritano le stele a porta e ad edicola.

Costante in  tutti i tipi era l'iscrizione, incisa sulla fronte dei vari edifici funerari, sempre contenente i dati anagrafici del defunto, spesso accompagnati dal nome di coloro che avevano predisposto la sepoltura. Altri dati potevano invece differenziarsi: da semplici formulari espressi con sigle e abbreviature, ad  indicazioni della professione o di cariche civili e militari rivestite, od espressioni di tipo affettivo.

Fra le numerose iscrizioni sepolcrali sarsinati, fonte primaria per la conoscenza degli antichi abitanti, particolare attenzione meritano il testamento inciso sull'ara di Cetrania Severina (sala I) e la prescrizione sepolcrale  sul cippo di Oratio Balbo (sala III), quali attestazioni di norme giuridiche di diritto privato.

Nel corso del II sec. d. C., con l'affermazione dei nuovi credi religiosi di origine mediterranea ed orientale, le sepolture a fossa, sia che fossero  inumazioni o cremazioni, spesso utilizzarono come elementi esterni semplici ciottoli o mucchi di pietre che, unitamente ai colli delle anfore emergenti dalla sommità della fossa, permettevano di riconoscere in superficie le diverse sepolture al fine di praticare i periodici riti funerari.

 


I RITI FUNERARI ROMANI

Alla fine del I sec. a.C., dopo la romanizzazione del territorio regionale, il culto funerario subì significative trasformazioni. Fu abbandonata la pratica dell’ inumazione, tipica delle popolazioni italiche, a favore dell'incinerazione, adottata diffusamente  a Roma.

L’inumazione tornò ad affermarsi nella seconda metà del II sec., come conseguenza di trasformazioni di ordine religioso, anche se i due rituali poterono  convivere, connessi al costume e al credo individuale.

Il rito dell’inumazione era il più semplice: il cadavere veniva deposto supino, talora in cassa lignea, all'interno della fossa scavata nel terreno; a volte poteva essere protetto da strutture di copertura con lastroni o con tegole disposte a doppio spiovente (copertura alla cappuccina)  oppure in casse laterizie o più raramente entro sarcofagi marmorei.

Più complesso era il cerimoniale dell'incinerazione, distinto in due diverse tipologie:

- cremazione diretta (bustum); il defunto, deposto su un assito ligneo o su di un letto funebre e spesso accompagnato da oggetti personali o monili, veniva bruciato all'interno della fossa; i resti del rogo erano ricoperti  frequentemente da laterizi. In alcuni casi si poteva procedere all' ossilegium, ossia alla cernita delle ossa raccolte poi entro il cinerario, che rimaneva comunque all'interno della fossa;

- cremazione indiretta; questo rito presupponeva invece l'esistenza di un apposito spazio, l'ustrinum, dove si accendeva la pira per il rogo funebre; una volta bruciato il cadavere, le ossa calcinate venivano raccolte e trasferite nella tomba. In presenza di un pozzetto o di una cassa laterizia, assieme alle ossa si potevano trasferire anche parte delle ceneri. Se invece le ossa erano raccolte entro l'urna cineraria, venivano selezionate dal resto della combustione e talvolta anche lavate.

Alcuni tipi monumentali potevano accogliere al loro interno, entro un'apposita cella, le urne con le ceneri dei defunti; i monumenti sarsinati avevano invece solamente la funzione di evidenziare il luogo di sepoltura, mentre l'urna veniva seppellita sottoterra, in alcuni casi racchiusa entro blocchi di arenaria sovrapposti (esemplari a fianco del monumento di Peto).

Connessa al rito di sepoltura era la deposizione del corredo, distribuito entro la fossa e diversificato in base alla ricchezza del defunto.

Fra i vari oggetti, per lo più vasellame di diverso tipo, ricorrenti erano: la moneta, quale “obolo di Caronte”; la lucerna per illuminare il viaggio nell'aldilà; il balsamario in vetro per gli unguenti. Oggetti più personali, diversificati in base al sesso, potevano invece essere indossati dal defunto fin dal momento del funerale.

Nella necropoli di Pian di Bezzo, dove le cremazioni costituiscono l'89% delle sepolture, lo scavo degli anni '80 ha permesso di riconoscere  alcune pratiche funerarie effettuate durante e dopo il funerale (funus) in corrispondenza delle tombe. Sul suolo si sono infatti individuati numerosi addensamenti di materiali riconducibili al rituale officiato dai parenti del defunto: banchetto funebre (silicernium), offerte, libazioni collettive, atti purificatori (profusiones), come da residui di cibo, vasellame da mensa e lucerne sparsi attorno alle fosse.

 


LE DIVINITA’ ORIENTALI

Il culto delle divinità orientali si manifestò nel mondo romano soprattutto durante il II secolo d.C, periodo di eclettismo religioso e di favorevole adesione da parte della dinastia imperiale. L'intensità dei rapporti  commerciali e culturali con Ravenna, base della flotta romana stanziata a Classe e spesso equipaggiata da marinai levantini devoti a questi dei, possono oltremodo giustificarne la presenza a Sarsina, dove il culto è significativamente rappresentato da sei divinità, due appartenenti al ciclo frigio-anatolico e quattro a quello egizio. Le officine di fabbricazione sarebbero da ricercare nella stessa Roma o meglio in area orientale, come documentato dagli otto blocchi separati che compongono il Serapide, numerati con lettere dell'alfabeto greco per essere montati sul posto.

Le statue furono rinvenute in stato di totale frammentarietà durante i lavori di scavo effettuati nel 1923 per l'edificazione dell' “Ospedale” (in seguito Casa di Riposo in via Barocci). Si può forse ipotizzare che il luogo del ritrovamento coincidesse col sito originario degli edifici di culto cui le statue appartenevano, per gli indizi offerti da alcune strutture messe in luce quali murature, pilastri, fusti di colonne e capitelli corinzi, lastricati pavimentali in marmo. Da evidenti segni di danneggiamento su diverse porzioni scultoree è risultata invece più chiara l'intenzionalità della loro distruzione, avvenuta forse in epoca cristiana. Probabilmente le statue, trasportate al di fuori delle celle templari, furono distrutte a colpi di mazza con conseguente sbriciolamento e perdita di intere parti. Tuttavia, anche se la frammentarietà ne sminuisce il pregio artistico, sono state riconosciute le sembianze e ricomposte le statue di Cibele, la grande Madre degli uomini e degli animali, accompagnata da Attis, il giovane pastore col berretto frigio, innamorato di lei, entrambi appartenenti al culto asiatico. Più discussa è stata invece l'identificazione di alcune divinità del gruppo egizio, al quale si assegna con certezza  Serapide (ovvero Plutone) che accarezza il cane Cerbero.

Da riconsiderare è invece l' identificazione delle altre statue: Arpocrate, Mitra e Anubis (divinità egizia con testa di cane).

Il recupero fra i materiali del Museo di una testa femminile, rinvenuta nello stesso contesto di scavo - ritenuta in precedenza dispersa e quindi non considerata al momento del restauro - ha permesso di ipotizzarne l'appartenenza alla statua panneggiata, che affianca la statua di Serapide. Tale figura non sarebbe pertanto più da considerarsi la rappresentazione del dio Anubis - in base all'inserimento del volto di cane suggerito dal restauro - bensì raffigurazione della dea Iside, peraltro già ipotizzata in base all'iconografia delle vesti (chitone e himation) e alla presenza della situla. Accettando questa ipotesi si completerebbe il ciclo statuario egizio, con la ricomposizione della triade canonica che riunisce Serapide, Iside ed il giovinetto Arpocrate (porzione di statua con piedi di fanciullo). Ad essi si potrebbe affiancare il dio Anubis (porzione di statua a tunica corta); dal complesso sacro verrebbe escluso solamente il dio Mitra, spesso ipotizzato ma mai identificato con certezza.

 


LA CINTA MURARIA

Le mura erano i primi elementi che, unitamente al tracciamento delle strade e alla realizzazione delle fognature, connotavano l'area urbana, regolarizzandone il perimetro ed evidenziandone l'ampiezza. Per la sua peculiare connotazione di “recinto” entro cui si sviluppava la città, la cinta muraria assumeva una duplice valenza di strumento di difesa e di presa di possesso di un luogo, attraverso la definizione del limite sacro ed inviolabile del pomerium (il confine sacro della città).

Da alcune iscrizioni sappiamo che a Sarsina, nel corso del secondo venticinquennio del I sec. a.C. furono costruite alcune parti della cinta muraria, anche della lunghezza di 1000 piedi (poco meno di 300 metri), per volere dei massimi magistrati del municipio. 

La cinta muraria aveva una forma pressoché trapezoidale, con i lati di 200 x 400 metri ed era realizzata in opera quadrata di blocchi di arenaria.

Le iscrizioni esposte a parete che menzionano la costruzione di un murus e la presenza di turres (torri) e portae (porte) con valve, sono tutte pressoché coeve, segno che si dovette trattare di un'opera di un certo impegno, progettata con un unico piano d'insieme.

La costruzione della cinta muraria non fu dettata unicamente da necessità difensive, ma forse anche per volontà di ornare la città che, per la sua posizione su terrazzamenti paralleli alla vallata, doveva così assumere un forte valore scenografico.

Sicuramente esisteva la consapevolezza di questo valore architettonico dato che su di una lastra facente parte delle mura si menziona il nome dell'architectus, di cui purtroppo non si conserva il nome.

Ben leggibile è invece il patronimico del magistrato, Cesellius,che ne decretò la costruzione.

Alcune porzioni della cinta muraria di età romana sopravvivono ancora lungo il lato orientale dell'abitato in via Matteotti (cfr. planim n..), sotto la cortina muraria medievale dei Torricini, e nel parco delle Rimembranze(cfr. n.9), mentre il probabile basamento di una torre si trova in via Guerrin Capello (cfr. n ) al di sotto della cosi detta “ casa di Plauto”.Nell'edificio, sebbene ampiamente rimaneggiato in età medievale, sono infatti ancora ben leggibili la fondazioni di una torre di 7.50 x 8.70 metri di lato, con cortina muraria di oltre un metro di spessore.

Più incerto risulta l'andamento delle mura lungo i lati occidentale e settentrionale della città. Circa i numerosi resti segnalati lungo le pendici del colle di Calbano, a ovest della città, non è purtroppo facile stabilire se si tratti di reimpieghi oppure se costituiscano effettivamente la traccia di una struttura difensiva di età romana.

 

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Data ultimo aggiornamento 19-09-2022